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Il gusto delle cose ★★★

L'opera con cui Trần Anh Hùng ha conquistato il premio per la miglior regia al 76° Festival di Cannes consiste in un raffinato dramma sentimentale, preparato con dedizione, servito con amore e connotato da un forte sapore metacinematografico. Il film è in tutto e per tutto lo specchio delle pietanze allestite dai protagonisti (magnificamente interpretati da Benoît Magimel nei panni di un gastronomo e da Juliette Binoche in quelli della sua cuoca), legati da una relazione basata su rispetto, equilibrio e devozione reciproci. I sinuosi movimenti della macchina da presa introducono lo spettatore in cucina (ambiente sempre caldo e luminoso, anche nei momenti più bui), consentendogli di prendere sinesteticamente parte alla realizzazione di ciò a cui sta assistendo: un piatto, quindi, un atto d'amore, quindi, un film.

300 ★½

Adattando per il grande schermo l'omonima graphic novel di Frank Miller (a sua volta ispirata a L'eroe di Sparta di Rudolph Maté), Zack Snyder rivisita in chiave fantasy e orrorifica la celebre battaglia delle Termopili. Malgrado l'imbarazzo di una scrittura esageratamente infantile, retorica e manichea, il film incarna piuttosto fedelmente gli ideali del bushismo (il passo delle Termopili è la frontiera dove Leonida/Bush e i suoi prodi si sacrificano per la missione di fare la "sentinella" del mondo occidentale civilizzato¹) e presenta una ricercatezza estetica impattante, tutto sommato coerente con l'ideale ellenico del καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs). Tale riferimento è rinvenibile non solo negli addominali degli opliti spartani, nella ieraticità delle pose e nella pomposità dei costumi, ma anche e soprattutto in uno stile registico fatto di ralenti insistiti che, seppur estenuanti, hanno il merito di cristallizzare l'azione, spazializzando la batt

Priscilla ★★★

In totale contrapposizione rispetto all'istrionesco Elvis di Baz Luhrmann (frenetico nello stile e quasi supereroistico nel contenuto), Sofia Coppola scrive e dirige un biopic tutto in sottrazione per mettere in scena la vita di Priscilla Beaulieu, dal suo primo incontro con Presley nel 1959, fino al divorzio del 1973. Adottando un punto di vista femminile, ma sempre all'ombra dell'uomo sotto i riflettori, Coppola confeziona così un raffinato racconto di formazione, nel corso del quale lascia che a plasmare Priscilla siano i capricci e i desideri di Elvis, espressione di un potere patriarcale abituato a oggettificare la donna, a suo uso e consumo. Malgrado la scarsa originalità di un tema comunque caro alla contemporaneità (si pensi ai recentissimi Barbie e Povere creature! ), l'inconfondibile tocco della regista conferisce la giusta profondità alla protagonista (meravigliosamente interpretata da Cailee Spaeny, Coppa Volpi a Venezia), sia nella sua trasformazione da bi

May December ★★★

Ispirandosi liberamente alla vicenda di un'insegnante che adescò e poi sposò un suo alunno tredicenne, Todd Haynes confeziona un raffinato noir contemporaneo, attraverso cui elide il labile confine che separa realtà e finzione. Affiancando alla protagonista (Julianne Moore) un'attrice che deve interpretarla sul grande schermo (Natalie Portman), il regista va oltre Stanislavskij e mediante insistiti giochi di specchi fa insinuare l'identità di una dark lady nelle crepe dell'altra. Senza possibilità di comprendere fino in fondo dove la simulazione diventi dissimulazione, allo spettatore non resta quindi che affidarsi al cinema, l'unico luogo di disvelamento del vero.

La zona d'interesse ★★★½

Adattando l'omonimo romanzo di Martin Amis, Jonathan Glazer assimila le teorie sulla non rappresentabilità dell'Olocausto e allestisce un'opera cinematograficamente solidissima, che affida il Male alla potenza del sonoro e del fuori campo. A tradire la quiete che sembrerebbe trasparire dalla compostezza scenografica e dai dialoghi dei protagonisti sono dunque i prodigiosi stacchi di montaggio, la raggelante staticità dei punti macchina e la lividezza cromatica della fotografia, che lascia al bianco e nero della camera termica l'unico gesto sovversivo e di calore umano dell'intero film. Un capolavoro giustamente premiato a Cannes e dall'Academy.

Drive-Away Dolls ★★½

Il primo film di finzione diretto in solitaria da Ethan Coen consiste in una screwball comedy on the road, dal ritmo forsennato, lo stile cartoonesco e l'intento apertamente parodico. Accantonando il nichilismo cosmico tipico della poetica coeniana (portato avanti dal fratello Joel nel suo Macbeth ) e concentrandosi maggiormente sul farsesco (di cui lo stesso Macbeth è del tutto sprovvisto), il regista confeziona un'opera cinematograficamente spassosa, dove l'umorismo, oltre che dalle battute e dal citazionismo, è dato anche dai raccordi di un montaggio che procede per lo più in parallelo. Dispiace per la pochezza contenutistica (la riflessione può limitarsi al ruolo del caso come generatore di equivoci assurdi), ma le ambizioni del film sono altre.

Macbeth ★★

Il Macbeth di Joel Coen è un pigro remake dell'adattamento di Orson Welles: formato 4:3, bianco e nero chiaroscurale, messa in scena minimalista, fedeltà ai versi shakespeariani (talora barbaramente accorciati). Salvano il film l'impianto estetico (suggestivo, per quanto derivativo) e qualche originale intuizione (la strega una e trina, il peso sonoro del sangue versato, il duello finale). Straordinaria prova di Kathryn Hunter; bene Frances McDormand; pessimo Denzel Washington.

Dune ★★★

Colossale pellicola fantascientifica, che tramite ingegnosi espedienti audiovisivi immerge gradatamente lo spettatore nel complesso universo di Dune. Notevoli in tal senso sia la martellante colonna sonora di Hans Zimmer, sia le splendide scenografie mediorientaleggianti, che avvicinano concretamente la distopia alla realtà. Incredibile come il sottotesto ecologista (v. desertificazione) e politico (v. imperialismo, colonialismo e questione palestinese) venga veicolato in modo così strettamente cinematografico, senza il ricorso a spiegoni didascalici o voice over. Ancor più incredibile è la capacità di Villeneuve nel riuscire a conferire un'impronta tanto personale (numerosi sono i riferimenti alla sua filmografia, fantascientifica e non) a quello che può essere considerato a tutti gli effetti come un blockbuster d'autore. Fotografia arida e monocromatica, abile ad alternare il buio degli interni alla luminosità degli esterni. Regia monumentale, dallo stile raffinato e ieratico

Dune - Parte due ★★★

Dopo il lunghissimo prologo contemplativo della prima parte , con la seconda Villeneuve passa finalmente all'azione, riuscendo nell'impresa di massimalizzare ulteriormente il già poderoso impianto audiovisivo. Permangono la ieraticità registica e la roboante colonna sonora di Hans Zimmer, cresce in magniloquenza la simbologia cromatica delle comunità (si passa dal calore desertico dei Fremen al bianco e nero riefenstahliano di Giedi Prime) e prosegue la convincente trasposizione delle istanze del testo di Herbert (profetico sia in chiave ecologista, che politica). A destare qualche risibile perplessità risultano invece la piattezza della linea romantica e la fin troppo agevole risoluzione dello scontro finale. Un blockbuster d'autore comunque solidissimo, capace di dare senso e compiutezza all'interlocutorietà narrativa del primo capitolo .

American Fiction ★½

L'esordio alla regia di Cord Jefferson (anche sceneggiatore e co-produttore) consiste in un'opera didascalicamente metatestuale, che finisce con lo scadere in tutti gli stereotipi che intendeva all'apparenza sdoganare. Come il romanzo del suo protagonista, il film è qualitativamente scadente e offre ai bianchi l'intrattenimento black perfettamente rispondente alle esigenze mainstream. Un titolo trascurabile, reso tuttavia interessante dalle 5 candidature ai premi Oscar, che ne testimoniano l'inquietante e paradossale attendibilità.

La società della neve ★½

Adattando l'omonimo libro che documenta i racconti dei sopravvissuti allo schianto dell'incidente aereo delle Ande del 1972, Juan Antonio Bayona realizza un film pessimo sotto (quasi) tutti i punti di vista: il cast è imbarazzante, il montaggio confuso, la fotografia inutilmente calda, gli effetti visivi ridicoli e la sceneggiatura pullula di didascalismi, cliché e ridondanze tipiche dei prodotti seriali. Risulta inoltre pretestuosa l'enfasi con cui si tenta di spacciare per dilemma etico ed esistenziale una scelta obbligata come quella che impone ai superstiti di nutrirsi dei cadaveri dei defunti per poter sopravvivere. L'unico pregio del film è quello di aver affidato la voce fuori campo a un morto, sottolineando in modo cinematografico il contratto sociale posto alla base della comunità. Poca roba.

Past Lives ★★

L'esordio alla regia di Celine Song consiste in un dramma sentimentale di matrice autobiografica, che mira a toccare le corde dello spettatore, facendo leva sull'effetto nostalgia insito nell'incontro di un amore adolescenziale impedito da cause di forza maggiore. Malgrado una soddisfacente costruzione della commozione (specie nel finale), il film paga un'eccessiva frontalità estetica e narrativa: la prima, figlia della pressoché totale assenza del fuoricampo (fondamentale in un'opera che vuole fare dei silenzi e dei non detti il suo punto di forza); la seconda, dovuta a un didascalismo estremo (che trova il suo culmine nella dichiarazione d'intenti metacinematografici). La composizione dell'immagine sarebbe anche appagante, se solo non fosse intervallata dalla sovrabbondanza dei tagli di montaggio e da sequenze inutilmente contemplative.

The Holdovers - Lezioni di vita ★★½

Comfort movie natalizio abilmente diretto da Alexander Payne, che facendo leva sull'umorismo e la nostalgia (visiva prim'ancora che narrativa), esorcizza la solitudine dei suoi protagonisti, uniti in una famiglia putativa sofferente e quindi solidale. Malgrado la scarsa originalità del tema e l'irrilevante presenza di personaggi secondari, il cast è in parte, la sceneggiatura intrattiene e l'estetica funziona. Un film che diverte e scalda il cuore.

Povere creature! ★★★

Dopo il successo de La favorita , Yorgos Lanthimos prosegue con efficacia e coerenza il percorso di commercializzazione della propria poetica, realizzando un'opera grottesca saldamente ancorata alla contemporaneità. Il binomio eros-thanatos tanto caro al regista greco viene questa volta declinato in un racconto di formazione e di emancipazione femminile, calato in una messa in scena gotica, retrofuturista e antirealistica, che, fedele alle esigenze postmoderne, rievoca gli stilemi del cinema passato (dai Classici Universal ai più recenti Gilliam, Burton e Del Toro). Malgrado alcuni evidenti limiti (come il didascalismo della scrittura nei risvolti filosofici o l'abuso della fish-eye camera), il film funziona, riuscendo a coinvolgere il grande pubblico e a stimolare letture metacinematografiche (Lanthimos come Godwin cuce i frammenti di altri corpi filmici alla sua nuova creatura, riportando in vita una salma cinematografica). Edificanti e numerosi i punti di contatto con Barbie

La favorita ★★★½

Commedia in costume tutta al femminile, attraverso cui Lanthimos cela dietro un umorismo di facciata il nichilismo tipico della sua poetica. La sceneggiatura è godibilissima e sviscera in modo acuto e conturbante l'inscindibile legame tra sesso e potere. La regia abusa della fish-eye camera, estremizzando i grandangoli e consentendo allo spettatore di sbirciare gli intrighi di palazzo. Interpretazioni di livello assoluto.

Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà ★★★

Il primo (e ultimo) James Bond interpretato da George Lazenby rappresenta uno dei titoli più riusciti (e paradossalmente snobbati) dell'intera saga di 007. Sebbene il carisma dell'attore australiano non sia paragonabile a quello di Connery (richiamato nel titolo successivo proprio per ovviare al malcontento dei fan), il cambio finisce per rivitalizzare il protagonista, sempre più piatto nelle ultime uscite (vedasi Thunderball e Si vive solo due volte ). Affrontato di petto il problema con una geniale rottura della quarta parete, la sceneggiatura mette subito le cose in chiaro e non ha paura di far evolvere Bond in un personaggio più umano e fallibile, con un desiderio d'amore autentico e senza precedenti. La scenografia è forse meno sofisticata del solito (si nota l'assenza di Ken Adam), ma la regia di Peter R. Hunt (montatore dei titoli precedenti) sceglie perfettamente i punti macchina e sfrutta egregiamente gli overlapping del montaggio per frammentare l'azione n

Agente 007 - Si vive solo due volte ★★

Il primo 007 diretto da Lewis Gilbert segna un notevole passo indietro rispetto alla magniloquenza visiva di Thunderball : vuoi per la goffaggine delle scazzottate e per l'approssimazione del trucco di Connery in Giappone, vuoi soprattutto per l'abbondante ricorso a retroproiezioni grezzissime. Anche la scelta di alternare tre diverse Bond girl (una più pleonastica dell'altra) lascia a desiderare. Restano le splendide scenografie di Ken Adam, la divertente sequenza aerea con la "Piccola Nellie" e la prima apparizione di Blofeld, con il volto di Donald Pleasence.

Agente 007 - Thunderball (Operazione tuono) ★★½

Il quarto capitolo della saga di 007 segna un netto passo in avanti produttivo rispetto ai titoli precedenti. Ciò nonostante, se da un lato l'incremento di budget migliora la spettacolarizzazione visiva delle sequenze action (impreziosite dal formato in Cinemascope e dall'abbondanza di inappuntabili riprese subacquee), dall'altro inficia la fluidità narrativa, appesantita dall'eccessivo autocompiacimento estetico e da una durata che per la prima volta supera le 2 ore. Incipit e finali travolgenti; scenografia di Ken Adam ancora una volta monumentale; Claudine Auger tra le migliori Bond girl di Connery.

Agente 007 - Missione Goldfinger ★★★

Perfezionando i marchi di fabbrica della saga già grossolanamente codificati nel titolo precedente , in Missione Goldfinger James Bond cristallizza definitivamente la sua iconicità, mantenendo il giusto equilibrio tra ironia e spettacolarizzazione. Malgrado la fin troppo agevole risoluzione finale, il racconto è brioso e meno ingessato che in precedenza e le scenografie di Ken Adam sono impressionanti ¹. Particolarmente memorabili i titoli di testa e la morte di Jill, completamente ricoperta di vernice dorata. ¹ P. Mereghetti

A 007, dalla Russia con amore ★★★

Il secondo capitolo di 007, se da una parte risulta un sequel diretto del primo (di cui si ripropongono personaggi, riferimenti e situazioni), dall'altra finisce con il codificare i canoni dell'intera saga (prologo avvincente e decontestualizzato, titoli di testa altamente elaborati, pluralità di location, erotismo più marcato, gadget tecnologici ai limiti della fantascienza). La sceneggiatura non è ancora scorrevolissima, ma l'alta spettacolarità delle sequenze action e il tentativo di dialogo tra USA e URSS in piena guerra fredda lasciano il segno.

Agente 007 - Licenza di uccidere ★★★

Il primo capitolo della saga dedicata a James Bond, l'agente segreto britannico con licenza di uccidere ideato dai romanzi di Ian Fleming, presenta molti dei marchi di fabbrica che caratterizzeranno i successivi titoli su 007 (a partire dall'iconica sequenza gunbarrel e la raffinata elaborazione stilistica dei titoli di testa). Malgrado la sceneggiatura non sia sempre brillantissima in alcuni snodi narrativi, la caratterizzazione del protagonista risulta efficace ed impreziosita dall'ottima interpretazione di Sean Connery, elegante, intelligente e playboy al punto giusto, ma anche abilissimo ad infondere umorismo a un personaggio che sulla carta ne era sprovvisto. Notevoli sia gli effetti speciali (che non risentono del basso budget), sia la scenografia (estremamente sofisticata e capace di calare lo spettatore in uno scenario inedito). Memorabile l'entrata in scena di Ursula Andress, tra le Bond girl più iconiche della saga.

Il boss ★★★½

L'ultimo capitolo della trilogia del milieu di Di Leo (iniziata con Milano calibro 9 e proseguita con La mala ordina ) risulta anche quello più riuscito, vuoi per la rara bellezza dell'incipit (tanto efferato quanto metacinematografico), vuoi per l'implacabile nichilismo di fondo. Pur non presentando momenti action particolarmente memorabili, l'intreccio narrativo è solidissimo e condanna senza appello la collusione delle istituzioni (forze dell'ordine, classe politica e finanche la Chiesa) con la malavita. Menzione d'onore alla scrittura e all'interpretazione del personaggio di Antonia Santilli, controverso esempio di libertà sessuale femminile.

La mala ordina ★★½

Il secondo titolo della trilogia del milieu di Fernando Di Leo prosegue sulla falsariga di Milano calibro 9 , restando a metà strada tra il cinema di Melville e quello di Siegel. Il film evita i difetti del precedente (lasciando polizia e politica da parte), pur non riuscendo tuttavia a raggiungerne i picchi di bellezza. Malgrado questo equilibrio, l'opera regala comunque momenti di grande impatto, come le agghiaccianti uccisioni di personaggi innocenti o l'incalzante inseguimento finale.

Milano calibro 9 ★★★

Il primo titolo della trilogia del milieu di Fernando Di Leo (proseguita con La mala ordina e Il boss ) consiste nell'opera forse più celebre del regista, che abbina al senso di persecuzione e di sospetto del noir europeo (il protagonista è costantemente pedinato) scene di straordinaria efferatezza (come nello splendido incipit), anticipatorie del filone poliziottesco. Un film di genere audace e ben confezionato, impreziosito dalla colonna sonora di Bacalov e guastato solo dalla pretestuosità del messaggio politico, veicolato in modo eccessivamente didascalico e manicheo.

Vivere e morire a Los Angeles ★★★½

Quattordici anni dopo Il braccio violento della legge, William Friedkin torna a riscrivere le regole del poliziesco, realizzando un cupissimo thriller metropolitano, che sfuma implacabilmente il confine tra bene e male, mettendo in scena la totale sfiducia dell'uomo nei confronti della società: se infatti il villain è un falsificatore di denaro (l'unico collante sociale del reaganesimo), il protagonista è un poliziotto infiltrato sempre al limite della legalità. Oltre allo spessore semantico, anche la confezione risulta di prim'ordine, vuoi per la fotografia iperrealista di Robby Müller, vuoi soprattutto per l'adrenalinica realizzazione di uno dei migliori inseguimenti della storia del cinema.

Il pranzo di Babette ★★★½

Dopo una quarantennale carriera principalmente televisiva, Gabriel Axel realizza il suo capolavoro a 69 anni, quando riesce finalmente ad adattare per il grande schermo l'omonimo racconto di Karen Blixen. Contrapponendo il rigoroso bigottismo della fede alla sua concezione più aperta alla vita e all'amore, il film ricorre al personaggio di Babette per rappresentare la Grazia cristiana: dopo la sua entrata in scena, la distensione narrativa e la luminosità fotografica crescono progressivamente in modo direttamente proporzionale, collimando in un pranzo simbolo di altruismo, dedizione e piacere, leggibile peraltro anche in chiave metacinematografica: come la sua protagonista, anche il regista da dietro le quinte mette la sua arte a servizio di un pubblico ampio e variegato, dal cinefilo raffinato (incarnato dal generale), fino allo spettatore più neofita, il quale, pur non avendo gli strumenti per decodificare fino in fondo l'arte di cui sta fruendo, apprezza e gradisce allo

Amadeus ★★★

 Adattando per il grande schermo l'omonima pièce teatrale di Peter Shaffer (anche sceneggiatore del film), Miloš Forman contrappone il genio di un anticonformista sregolato come Mozart (caratterizzato in modo forse eccessivamente macchiettistico) al frustrante rigore conservatore di Salieri (specchio della chiusura della società e autentica personificazione dell'invidia). Grazie all'escamotage della confessione al prete (alter ego dello spettatore), la narrazione adotta il punto di vista del villain, la cui voce fuori campo intride di sagace umorismo il racconto ("l'imperatore non aveva orecchio, ma adorava la mia musica"). Messa in scena compiuta, montaggio accurato, colonna sonora ben abbinata alle vicende (soprattutto quando irrompe nella diegesi, rendendosi protagonista).

Mulholland Drive ★★★★

Dando maggior compiutezza all'ostico e radicale Strade perdute , David Lynch realizza il noir che funge da summa della sua intera filmografia. Dopo essersi preso gioco dello spettatore per buona parte del film, il regista confeziona la rivelatoria sequenza del Club Silencio e svela in modo cinematograficamente inappuntabile le conturbanti illusioni dell'inconscio. Come se non bastasse, l'opera si prende la briga di ergersi anche a controcampo di Viale del tramonto, mettendo in scena le perversioni dell'industria hollywoodiana e il lato oscuro del Sogno americano. Magniloquente colonna sonora di Angelo Badalamenti. Montaggio impeccabile. Un capolavoro assoluto, che ha riscritto la storia del cinema.

Strade perdute ★★★½

Partendo dal capolavoro hitchcockiano La donna che visse due volte, David Lynch si diverte a stravolgere i meccanismi del cinema noir, mettendo in scena l'opera forse più freudiana della sua filmografia. Avvalendosi di una sceneggiatura labirintica, che per raccontare il conflitto tra Es, Io e Super-Io sdoppia la personalità del protagonista e porta alla deflagrazione della linea narrativa, il film presenta una delle più importanti dichiarazioni di intenti del regista, fautore di un neurealismo¹, secondo cui il reale corrisponde al percepito e non a ciò che accade davvero. La radicalità dei paradossi e la consapevole rinuncia alla razionalità rendono l'opera di difficile fruizione, ma risulta il tassello fondamentale che porterà al più compiuto Mulholland Drive . ¹ Bruno Di Marino

Dune ★½

Pellicola tanto ambiziosa quanto fallimentare, che tenta di trasporre sul grande schermo l'omonimo romanzo fantascientifico di Frank Herbert. La sceneggiatura vomita addosso allo spettatore una valanga di informazioni impossibili da assimilare in così poco tempo, generando confusione e perplessità. Dialoghi approssimativi, personaggi privi di introspezione psicologica, abuso insistito delle voci fuori campo, combattimenti senza pathos. Disastrosi anche gli effetti speciali. Si salvano solo il montaggio, la colonna sonora e qualche affascinante scenografia.

Velluto blu ★★★★

Dopo l'insuccesso di Dune , David Lynch realizza un noir magnetico, con cui mette in scena in modo cinematograficamente unico, personale e magniloquente il contrasto tra l'apparente tranquillità del mondo borghese (rappresentato dalla luce del sole e dalla spensieratezza di Laura Dern) e la torbida realtà della psiche (a cui specularmente corrispondono le tetre scene notturne e il fascino del proibito incarnato da una straordinaria Isabella Rossellini). Con straordinaria lucidità, la sceneggiatura tratteggia una narrazione lineare, incentrata sul disvelamento dell'inconscio. Magistrali le dissolvenze incrociate del montaggio e le vellutate composizioni sonore di Angelo Badalamenti, qui alla prima collaborazione con Lynch.

Eraserhead ★★★

L'opera prima di David Lynch (qui oltre che regista anche sceneggiatore, montatore, sound designer, scenografo, compositore e responsabile degli effetti speciali) consiste in un conturbante horror distopico, che nonostante l'inquietudine di fondo non rinuncia a una sottile dose di ironia. La sceneggiatura, di matrice kafkiana, risulta tanto minimalista quanto enigmatica nel mostrare in chiave onirica e grottesca l'orrore per la paternità e le angosce che la vita familiare comporta. Un'opera seminale, che presenta già molte delle ossessioni che Lynch svilupperà nel corso della sua filmografia. Sonoro ed estetica di alto livello.

Enea ★★

Dopo il promettente esordio alla regia con I predatori , Pietro Castellitto torna a scrivere, dirigere ed interpretare un film ancora una volta incentrato sulla crisi della famiglia borghese e la solitudine delle nuove generazioni. I pregi, particolarmente preziosi nel mesto panorama del cinema italiano, sono essenzialmente due: la contemporaneità del prodotto (estetica prim'ancora che contenutistica) e l'efficacia del dry humour (soprattutto per le nuove generazioni). I limiti purtroppo sono molti di più: malgrado qualche buon elemento di raccordo, la sceneggiatura presenta diverse banalità; la raffinatezza visiva, oltre ad essere più sofisticata del necessario, mal si abbina alla scelta di brani musicali nazionalpopolari (Bandiera gialla, Maracaibo, Maledetta primavera) e l'ingerenza dei riferimenti cinefili (da La grande bellezza a Suburra) lascia una sgradevole sensazione di già visto, oltre la quale il film fatica a trovare un'identità precisa. Ad ogni modo, tirand

I predatori ★★½

Opera prima di Pietro Castellitto, che con brillante umorismo nero disseziona l'odierna società italiana, smascherando le sue profonde contraddizioni. Dopo un inizio confuso, la sceneggiatura trova la quadra e intreccia abilmente le vicende dei numerosi personaggi, riuscendo ad intrattenere con efficacia lo spettatore. Una pellicola tecnicamente distinta e molto ben interpretata, in grado di infondere nuova linfa all'attuale cinema italiano.

Chi segna vince ★

Basandosi sull'omonimo documentario del 2014, incentrato sulle vicende della disastrosa nazionale di calcio delle Samoa Americane, Taika Waititi dirige l'ennesimo film dedicato ai perdenti in cerca di un posto nel mondo. Malgrado la bontà delle intenzioni e lo spessore del cast, però, l'umorismo latita, le sequenze sportive sono piatte e le istanze queer vengono banalizzate. Una commedia fiacca, convenzionale e già stantia.

Foglie al vento ★★★

Rielaborando in chiave personale e contemporanea il Breve incontro di David Lean con tutte le contaminazioni del cinema successivo (l’etica di Bresson, l’estetica di Godard, il deadpan di Jim Jarmusch, la tenerezza di Chaplin), Aki Kaurismäki confeziona un mélo strettamente ancorato al Novecento. Pur ambientando il film nel presente e proiettandolo addirittura nel futuro (come dimostra un calendario del 2024), l'essenzialità della messa in scena e la scelta di luoghi in via di estinzione (la fabbrica, il pub, il cinema) rimandano al secolo breve che non intende prendere congedo dal mondo (come dimostra l'ingombrante presenza dei conflitti bellici, lasciati fuori campo, eppure impossibili da ignorare). Al netto di un ritmo non sempre brillante, la durata è esigua, lo stile asciutto, l'umorismo pungente e l'amore dilagante.

Perfect Days ★★★

A sei anni di distanza dal suo ultimo film, Wim Wenders torna dietro la macchina da presa per realizzare un dramma intimista sulla bellezza del quotidiano. Partendo da Ozu ed evitando i cliché tipici di uno dei generi prediletti del cinema d'autore, il film sembra ricondurre la serenità esistenziale del protagonista a un equilibrio con il mondo del tutto slegato dai valori della contemporaneità (Hirayama pulisce minuziosamente gabinetti pubblici, abbraccia la solitudine, rinuncia alla ricchezza, ama la natura e l'analogico). Un'opera senile, che rifiutando semplificazioni e manicheismi (come dimostrano le sequenze oniriche e il tormentato sorriso del finale) invita lo spettatore a scegliere il suo posto nel mondo.

Rebel Moon - Parte 1: Figlia del fuoco ★

Con la prima parte di Rebel Moon (la seconda è in arrivo, la terza in cantiere), Zack Snyder rivisita (ma non rielabora) l'universo di Star Wars, videolucizzandolo sia nella forma che nel contenuto. Malgrado la nobiltà dei riferimenti (tra cui I sette samurai di Kurosawa), la sceneggiatura si limita ad introdurre i vari personaggi mediante banali boss fight appartenenti a delle side quest, che si susseguono fino a uno scontro finale interlocutorio e prevedibile. Il ricorso a flashback e ralenti è estenuante; il citazionismo fuori controllo; la messa a fuoco fastidiosamente delirante; manca persino lo splatter. Un enorme spreco di tempo e di soldi.

Bottoms ★★½

Dopo la collaborazione in Shiva Baby , Emma Seligman e Rachel Sennott (ancora una volta attrice, ma anche produttrice esecutiva e co-sceneggiatrice insieme alla regista) realizzano una teen comedy liceale, capace di ribaltare gli stereotipi di genere (cinematografici e sessuali). La semantica femminista e la condanna del patriarcato vengono quindi messe in scena in modo così autentico, da arrivare a prendersi gioco della dilagante esasperazione woke, riuscendo al contempo a divertire lo spettatore mediante gag sincere ed esilaranti. Confezione giustamente patinata. Cast in parte.

Shiva Baby ★★★

L'opera prima di Emma Seligman consiste in un brillante dramedy da camera, caratterizzato da una sceneggiatura abile a giocare con le contraddizioni. Ogni componente filmica risulta funzionale alla semantica di fondo, riuscendo ad infondere un forte senso di claustrofobia: dai primi piani insistiti della regia, ai toni progressivamente più intensi della fotografia, passando per le conturbanti corde pizzicate della colonna sonora. Menzione d'onore all'interpretazione di Rachel Sennott e ai costumi, efficaci nel sottolineare la componente queer della pellicola.

Maestro ★★

Dopo il successo del dimenticabile A Star is Born, Bradley Cooper prosegue la sua caccia all'Oscar interpretando, dirigendo e scrivendo insieme all'affidabile Josh Singer un film su Leonard Barnstein, celebre direttore d'orchestra e compositore americano del secolo scorso (tra le colonne sonore, spicca quella di West Side Story ). La sceneggiatura rispetta tutte le regole del biopic e sceglie lucidamente di concentrarsi sulla duplice ambivalenza del protagonista: professionalmente diviso tra l'anima da esecutore e quella da artista, intimamente scisso tra la sua omosessualità e l'amore per l'attrice Felicia Montealegre. La regia risulta accademica (e impreziosita da qualche buon virtuosismo); la fotografia è notevole; le interpretazioni di prim'ordine (specie quella di Carey Mulligan). Insomma, sulla carta tutto torna; l'esecuzione è quasi impeccabile per un regista al secondo lungometraggio. A mancare, però, è l'unica cosa che conta: una vera esigen

West Side Story ★★★½

Il West Side Story di Steven Spielberg è una delle opere più politiche e personali della sua filmografia, da cui emerge un pessimismo quasi inedito. Scenografia in macerie, colori desaturati, abbondanza di buio e luoghi chiusi: è questa la rappresentazione dell'America post-trumpiana, pervasa da una mascolinità tossica e da guerre tra poveri letteralmente senza quartiere. Regia eccellente. Musiche fedeli all'originale. Eccezionale debutto per Rachel Zegler (una spanna sopra il resto del cast). Senza dubbio il miglior film del 2021.

West Side Story ★★★★

Splendido musical diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, che adattando un grande successo di Broadway, ambientano Romeo e Giulietta nel West Side newyorkese anni '50. La sceneggiatura ha il pregio di intrattenere lo spettatore, riuscendo al contempo a riflettere su questioni per il tempo (e per certi versi ancora oggi) drammaticamente rilevanti: conflitti razziali, degrado urbano, identità di genere, emancipazione femminile, reale portata dell'American Dream tra illusioni e concrete opportunità. Coreografie perfettamente eseguite e magistralmente inquadrate. Uso del rosso semanticamente significativo (sia nei costumi che nelle eccezionali scenografie). Dieci premi Oscar. Un capolavoro assoluto.

Il ragazzo e l'airone ★★★

Dieci anni dopo Si alza il vento, Hayao Miyazaki torna alla scrittura e alla regia di un lungometraggio animato, realizzando il suo testamento artistico. Avvalendosi di una sceneggiatura più stratificata e autobiografica del solito, l'autore si interroga sul senso del suo cinema (un immaginifico mondo in rovina), ad oggi privo di un erede e minacciato dalle insidie della contemporaneità (ben rappresentata dai parrocchetti). Occorre dunque calare in tale contesto gli espliciti rimandi alla Divina Commedia, all'Isola dei morti di Böcklin e all'8½ di Fellini. Un'opera tecnicamente inappuntabile, impreziosita dall'immancabile colonna sonora di Joe Hisaishi.

Wonka ★

Per realizzare l'origin story del celebre Willy Wonka (cosa di cui forse non si avvertiva l'esigenza), Paul King realizza un musical dal target infantile, ambientato in uno scenario dickensiano, ammorbidito dai colori pastello di una fotografia patinatissima. La CGI è implacabile; il montaggio confuso; le musiche, per quanto orecchiabili, risultano monotone e dimenticabili. La sceneggiatura prova a divertire, ma sopra i 10 anni è complicato. Come se non bastasse, il doppiaggio rende tutto irricevibile, annichilendo qualsiasi interpretazione del cast.

Saltburn ★★

Dopo il successo di Una donna promettente , Emerald Fennell torna a scrivere e dirigere un lungometraggio, mettendo da parte le questioni di genere e concentrandosi sul parassitismo insito nella brama di potere. Pur non brillando per originalità né sul piano contenutistico (le tematiche sono quelle de Il servo , già compiutamente riproposte dal più recente e illuminante Parasite), né su quello formale (il 4:3 è inopportuno e il simbolismo talvolta pretestuoso), il film mette in scena con compiutezza le labirintiche dinamiche utilitaristiche tessute dal protagonista, incanalando bellezza, erotismo e lotta di classe nella sofisticata tela di un gioco di potere così evidente, che avrebbe necessitato di maggiore ambiguità (in tal senso, lo spiegone finale è abbastanza irricevibile). Un godibile divertissement, modaiolo e da non prendere sul serio.

Il servo ★★★★

Il film alla base del recentissimo Parasite consiste in un dramma capace di calare all'interno del microcosmo domestico una grottesca e decadente lotta di classe dai risvolti imprevedibili. La regia si avvale di significativi giochi di specchi e di sinuosi piani sequenza, al fine di sottolineare le ambiguità del rapporto servo-padrone e di evidenziare l'inquietante inversione dei ruoli. Il tutto corredato da un'agghiacciante sensualità stilistica e semantica, che intriga e seduce lo spettatore.

Una donna promettente ★★½

Revenge movie va tinte rosa, caratterizzato da una sceneggiatura che esaspera consapevolmente la sua matrice femminista, fino a sfociare nell'inverosimile e nel caricaturale. Dopo una prima parte ridondante, in cui ci si assicura che il messaggio sia arrivato forte e chiaro, il film ha la forza di giocare con lo spettatore, spingendosi oltre la semplice morale e offrendo un intrattenimento in tutto e per tutto pop. Efficaci in tal senso la scelta dei brani musicali e i toni accesi della fotografia. Montaggio di livello. Carey Mulligan sempre in parte. Un buon esordio per Emerald Fennell.

Trappola di cristallo ★★★

Dopo il successo di Predator, John McTiernan, conferma la sua abilità registica confezionando Die Hard, il blockbuster hollywoodiano che lanciò la carriera di Bruce Willis e che segnò per sempre il genere action. Senza badare troppo ai contenuti (comunque presenti, seppur solamente accennati: si pensi alla pericolosità delle nuove tecnologie, alla spregiudicatezza del mondo degli affari, all'inettitudine dei vertici delle forze dell'ordine o allo sciacallaggio tipico dei media), il film amalgama bene componenti thriller e mélo e bilancia perfettamente ironia e violenza, riuscendo ad intrattenere a dovere lo spettatore, folgorato dall'autentica esplosività degli effetti speciali. Un'opera adrenalinica, tecnicamente solida, che, all'alba del post-modernismo, ricorre a un citazionismo programmatico e consapevole.

Il maestro giardiniere ★★★★

L'ultima fatica di Paul Schrader consiste in un film che mette in scena, ancora una volta e con il solito rigore formale che contraddistingue il suo stile, l'ennesimo racconto di stampo marcatamente bressoniano. A lasciare di stucco lo spettatore, però, oltre alla sontuosità estetica, è la mirabile rappresentazione della redenzione, perseguita questa volta mediante il sesso (l'atto impuro per antonomasia, che diventa purificatore) con una donna angelo mai così ambigua, concreta e al tempo stesso salvifica (può una Lolita di colore riabilitare un ex suprematista bianco?). Interpretazioni attoriali di altissimo livello. Il miglior film dell'anno.

Il collezionista di carte ★★★

Pellicola profondamente bressoniana scritta e diretta da Paul Schrader, che attraverso gli stilemi della New Hollywood prosegue la sua riflessione su espiazione e redenzione, questa volta estese a un'intera nazione. Coerentemente con la semantica di fondo, la regia risulta pulita e lineare, cedendo il passo a una caleidoscopica fish-eye camera solo nelle traumatiche analessi di Abu Ghraib, specchio dell'irrisolta violenza americana. Un'opera esteticamente rigorosa, che perde d'intensità solo nel finale, probabilmente troppo accelerato.

First Reformed ★★★½

Pellicola esistenzialista che rielabora Luci d'inverno in chiave contemporanea, proponendo una semantica ecologista efficacemente veicolata da una sceneggiatura riflessiva e mai banale, in grado di sollevare domande scomode. Regia statica e simmetrica, che esaltando l'orizzontalità di una scenografia asettica e spartana tenta di imporre un ordine al caos del mondo. Particolarmente degne di nota risultano la corsa fantasma dei titoli di testa, la scelta dei punti macchina e l'uso della profondità di campo. Fotografia cupa, in aperto contrasto con il luminoso bianco della chiesa. Splendida prova attoriale di Ethan Hawke, soprattutto nell'enigmatico finale.

Il silenzio ★★★

Il capitolo conclusivo della Trilogia del silenzio di Dio è quello più ostico ed enigmatico, in cui Bergman sembra abbracciare l'ermeneutica heideggeriana in chiave fideistica, intravedendo la presenza di Dio nell'universalità delle note di Bach e nelle sporadiche comprensioni umane in un contesto di incomunicabilità pressoché assoluta, peraltro causa di conflitti bellici e di un male capace di insinuarsi nella liquida voluttà della carne. Simbolismo talvolta inintelligibile, ma sempre stimolante. Estetica e prove attoriali di prim'ordine.

Luci d'inverno ★★★★

Il secondo capitolo della Trilogia del silenzio di Dio è uno dei massimi capolavori di Bergman, che avvalendosi di una messa in scena ancor più spoglia del solito racchiude il tormento per i dubbi della fede, turbata dall'incomunicabilità tra gli uomini e dalla perdita dell'amore (punto d'arrivo di Come in uno specchio ). L'amarezza dei dialoghi, la profondità dei silenzi e l'apertura del finale costituiscono i pilastri di una sceneggiatura inappuntabile, debitrice del Diario di un curato di campagna e punto di partenza di First Reformed . Ancora una volta fondamentale la fotografia di Sven Nykvist, che esalta l'inquietudine del protagonista e abbraccia il trascendente.

Come in uno specchio ★★★

Il film inaugurale della Trilogia del silenzio di Dio consiste in un kammerspiel esistenzialista, attraverso cui Bergman esplicita i dilemmi teologici già affrontati in precedenza e mette in scena il trascendente ricorrendo a uno stile austero e minimalista, enfatizzato da una fotografia di stampo dreyeriano. Il didascalismo del finale (sebbene utile a una più chiara comprensione della poetica del regista) stona con il misticismo dell'opera, meravigliosamente sublimata dalle note di Bach e da un montaggio impeccabile, capace di rivelare l'incesto con una dissolvenza.

Ferrari ★★★

Incurante delle regole del biopic, Michael Mann umanizza il mito di Ferrari (schiacciato da obblighi morali, familiari, sociali, economici) e confeziona, a 80 anni compiuti, l'opera più funerea della sua filmografia. Con un incedere ineluttabile (in pista, ma soprattutto fuori), il tempo logora l'ennesimo protagonista manniano, la cui tracotanza è ostacolata dai fantasmi figli del proprio individualismo. Montaggio incalzante, fotografia coerentemente mortuaria, regia abile ad alternare l'ampiezza di brevi campi lunghi a primi piani come al solito prolungati e significativi.

Il male non esiste ★★★

Ispirato dai brani di Eiko Ishibashi (cantautrice, nonché compositrice della colonna sonora), Ryusuke Hamaguchi rielabora a suo modo il sempiterno e conflittuale rapporto tra Uomo e Natura, contrapponendo le diversità abitudinali, valoriali e politiche della vita urbana rispetto a quelle della vita rurale (con inevitabili echi del cinema di Miyazaki). Riempiendo di significato i silenzi della sceneggiatura e dilatando i tempi per restituire al bosco gli spazi sottratti dall'espansione metropolitana, il film procede con la solita raffinatezza visiva verso un finale hobbesiano, tanto enigmatico quanto cinematograficamente compiuto.

Il gioco del destino e della fantasia ★★★

Delicata pellicola nipponica scritta e diretta da Ryusuke Hamaguchi, che suddividendo la narrazione in tre distinti episodi intreccia i temi del caso e dell'immaginazione in chiave intimamente erotica e sentimentale. Ottima la regia, che indovina la scelta dei punti macchina, prediligendo lunghe riprese a camera fissa, che infondono significato ai piccoli movimenti e ai rari stacchi del montaggio. L'incipit è folgorante, lo sviluppo forse troppo anticlimatico. Le prove generali di Hamaguchi in vista di Drive my Car .

Drive my car ★★★

L'adattamento dell'omonimo racconto di Haruki Murakami consiste in un intimo dramma esistenzialista, fatto di silenzi e tempi dilatati che riflettono sull'importanza della parola, letale per l'equilibrio di coppia, ma allo stesso tempo imprescindibile per l'elaborazione di un lutto. Composizione dell'immagine sempre impeccabile. Notevole il ricorso alle corse fantasma e al campo e controcampo. Miglior sceneggiatura a Cannes.

Diabolik - Chi sei? ★½

Il capitolo conclusivo della trilogia dei Manetti bros su Diabolik risulta, nel bene e nel male, coerente con i primi due titoli della saga (audiovisivamente affascinanti, eppure mal interpretati). Questa volta però, sconfessando l'impostazione vincente di Ginko all'attacco!, le fasi action vengono sacrificate per far posto a una verbosità sovrabbondante, che dilata inutilmente il tempo della narrazione e mette a dura prova la pazienza dello spettatore. La ridondanza della scrittura e la staticità registica, per la prima volta fanno rimpiangere l'essenzialità di un fumetto che, nei primi due capitoli (oltre che nell'indimenticato film di Bava ) ha conosciuto trasposizioni migliori.

Diabolik - Ginko all'attacco! ★★½

Il secondo capitolo della trilogia dei Manetti bros su Diabolik prosegue sulla falsariga del precedente , presentando di fatto i medesimi pregi (audiovisivi) e difetti (interpretativi). Questi ultimi vengono tuttavia nascosti grazie a una significativa riduzione dei dialoghi e della durata e a un contestuale incremento del ritmo e dell'azione, che favorisce l'intrattenimento. Resta la sensazione di un potenziale non del tutto espresso, ma l'operazione risulta valida e meritevole di interesse.

Diabolik ★★

L'ultima fatica dei Manetti Bros consiste nel coraggioso adattamento di Diabolik, trasposto sul grande schermo attraverso un'operazione filologica tanto affascinante quanto complessa. Audiovisivamente parlando il film è di alto livello e riesce perfettamente nell'impresa di imprimere su pellicola il fumetto originale (coerenti in tal senso risultano il montaggio serrato, gli split screen abbondanti, trucco ed effetti speciali per lo più artigianali). A guastare il tutto sono però le prove attoriali, che sconfinano troppo spesso nel parodico senza mai risultare all'altezza di ruoli comunque difficilissimi da interpretare. Un'opera ambiziosa e tecnicamente molto valida, che tuttavia difficilmente conquisterà il pubblico generalista a cui tenta di rivolgersi.

Diabolik ★★½

Il primo adattamento dell'omonimo fumetto delle sorelle Giussani consiste in un affascinante action movie a tinte marcatamente pop, che supplisce alle carenze narrative con ingegnose trovate visive. Ispiratissima in tal senso la vorticosa regia di Mario Bava, abilissimo a non far pesare l'esiguità del budget. Il ritmo è serrato, ma la mezzora finale risulta anticlimatica e ridondante. Violenza molto più edulcorata rispetto a un'eroticità tutt'altro che velata.

Scarface ★★★½

A cinquant'anni di distanza dall' omonimo film del 1932 , Brian De Palma dirige il remake di Scarface, raddoppiando la durata, enfatizzando la tragedia e attualizzandone la portata: in pieno reaganismo, la sceneggiatura di Oliver Stone decostruisce il Sogno americano basato sul culto dell'ego e del denaro, svelando le illusioni e le contraddizioni del capitalismo incarnato da Tony Montana: un uomo spregiudicato (eppure punito dalla propria etica), maniaco del controllo (eppure incastrato dallo spionaggio), incapace di amare, ma solo di possedere (come dimostra il torbido rapporto con moglie e sorella). La regia fa largo uso di dolly e piani sequenza, dimostrandosi tuttavia più contenuta del solito e raggelando maggiormente lo spettatore quando sceglie di lasciare la violenza fuori campo (v. sequenza motosega). Sontuose le performance di Al Pacino e Michelle Pfeiffer.

Scarface - Lo sfregiato ★★★½

Il film che ha fissato per gli anni a venire i canoni e gli stereotipi del genere gangster è liberamente ispirato alla vera storia di Al Capone e consiste in un atto di accusa nei confronti del governo statunitense, inoperoso di fronte alla crescita dilagante della criminalità organizzata (come dichiaratamente enunciato nei cartelli iniziali). La sceneggiatura sceglie il villain per protagonista e ne tratteggia con asciutta compiutezza l'ascesa e il declino. Notevole la regia di Hawks, che abbina alla sua solita essenzialità echi di matrice espressionista, capaci di infondere all'opera un taglio anticipatamente noir, aggirando al contempo la censura (indimenticabile l'uso delle ombre nell'omicidio iniziale e nella strage di San Valentino).

Un colpo di fortuna ★★★

Il 50° film diretto da Woody Allen (il primo di produzione interamente europea e girato in francese) consiste in un ritorno ai temi di Crimini e misfatti e Match Point , attraverso cui l'88enne cineasta newyorkese riflette, ancora una volta e con maggiore sfiducia verso il futuro, sulla centralità del caso e l'irrilevanza del determinismo. Avvalendosi di una sceneggiatura apparentemente semplice (talora quasi didascalica), eppure ragionatissima nella sua composizione (brillante il falso MacGuffin del biglietto della lotteria), il film delizia, diverte, beffa e sconvolge lo spettatore, scardinando con agghiacciante leggerezza le convinzioni e i paradigmi altoborghesi. Montaggio secco; notevole fotografia ultracromatica di Vittorio Storaro (che gioca come solo lui sa fare con il giallo e il blu); oltraggioso il doppiaggio italiano.

Match Point ★★★½

Film che porta a compimento il brillante progetto metacinematografico suggerito dal finale di Crimini e misfatti . La sceneggiatura, nonostante qualche irrilevante forzatura, affronta con efficacia temi tipici della filmografia alleniana, concentrandosi soprattutto sulla lussuria e l'importanza della fortuna. Un thriller sentimentale di altissimo livello, interpretato da una Scarlett Johansson pericolosamente seducente, affiancata dal poco espressivo Jonathan Rhys Meyers.

Crimini e misfatti ★★★½

Commedia nera dalla semantica spietata e beffarda, che mette in scena con maestria il rapporto spesso conflittuale tra morale e coscienza. Il film presenta una regia notevole e un'estetica nel complesso discreta; ciò nonostante, a conquistare lo spettatore è una sceneggiatura impreziosita da flashback frequenti e istantanei, capace di intrecciare abilmente due diverse linee narrative. Una pellicola amara, cinica e sarcastica, in cui non c'è posto né per Dio (il rabbino diventa cieco), né per la giustizia (il reato resta impunito), ma solo per una flebile speranza nelle nuove generazioni (fiducia di Allen nella nipotina).

Napoleon ★★★

Ricorrendo all'icona di Napoleone, Ridley Scott piega la storia alla sua poetica per mettere in scena il fallimento dell'imperialismo americano, sia sul piano politico, che su quello cinematografico. Occorre leggere in tal senso la duplice caratterizzazione del protagonista: braccato e infantile tra le mura di casa, conquistatore di mondi a suon di cannonate fuori. Ed è sempre in tal senso che va letta l'alternanza dello stile: quasi televisivo nell'intimità, magniloquentemente cinematografico in battaglia. Gli Stati Uniti hanno conquistato il mondo con l'artiglieria pesante e con il cinema, eppure, come il Napoleone di Scott, hanno fallito, perdendo tutto il loro peso specifico e restando solo un marchio. Un'opera non esente da difetti (in attesa della director's cut, molte sequenze appaiono fin troppo frettolose e la messa in scena di Waterloo non regge il confronto con quella di Austerlitz), eppure concettualmente esemplare.

Godzilla Minus One ★★★

L'ultimo remake del celebre Godzilla di Ishiru Honda (1954) consiste in un solidissimo action movie, attraverso cui Takashi Yamazaki (nella triplice veste di regista, sceneggiatore ed effettista speciale), pur restando fedele al film originale, sembra voler riflettere sui postumi della pandemia (particolarmente insistiti appaiono i riferimenti all'isolamento del protagonista e alla sua sindrome del sopravvissuto). Malgrado l'esiguità di budget, l'opera risulta audiovisivamente impattante, esaltando lo spettatore sia durante la prima apparizione del kaiju (intelligenti i disorientanti movimenti di camera tra le zampe del mostro), sia nello scontro finale (incalzato dalle attesissime note di Akira Ifukube). La componente mélo lascia a desiderare, ma il film trasuda con coraggiosa onestà un desiderio di vita più forte di qualsiasi ragione di Stato (discorso questo non banale, se calato nella cultura nipponica).

Godzilla ★★★½

Prima pellicola dedicata a Godzilla, il più celebre dei mostri nipponici, autentica incarnazione della minaccia nucleare (tema particolarmente caro al Giappone uscito devastato dal Secondo conflitto mondiale). Oltre all'evidente messaggio antimilitarista, la sceneggiatura offre momenti di intensa drammaticità, indugiando forse eccessivamente su qualche linea narrativa di troppo. Sebbene gli effetti speciali risultino oggi datati e raramente credibili, conservano ancora un certo fascino. Ad infondere ritmo e tensione sono la solida regia di Ishiro Honda e l'incalzante colonna sonora di Akira Ifukube. Montaggio invece impreciso, spesso confuso e talvolta troppo accelerato.

The Killer ★★

Dopo la realizzazione di Mank, David Fincher torna a dirigere un film per Netflix, ricorrendo a un impianto estetico e contenutistico più in linea con i canoni della piattaforma. Dietro la patina dei filtri fotografici e la banalità della solita storia di vendetta, l'autore si sente (il killer è figlio dell'indifferenza sociale che Fincher ha sempre denunciato nei suoi thriller e la sua freddezza è in qualche modo coerente con lo stile del regista), ma non si vede (problema non trascurabile in un film). Non lo aiuta la sceneggiatura, appesantita dalla sovrabbondante ripetitività della voce fuori campo e incapace di scegliere se parodiare il genere di riferimento o se piegarsi ai suoi cliché.

C'è ancora domani ★★

L'esordio alla regia di Paola Cortellesi (anche co-sceneggiatrice e attrice protagonista) consiste in una vera e propria commedia all'italiana, che inserisce in una cornice grossolanamente neorealista tematiche care alla contemporaneità, come violenza sulle donne, emancipazione femminile e riscoperta dei valori democratici. La scelta dei brani musicali, la patina del bianco e nero e il didascalismo della scrittura risultano croce e delizia del film, dimostrandosi tanto fallimentari sul piano autoriale, quanto efficaci su quello commerciale. Particolarmente riuscita la costruzione delle gag, che, insieme ai suddetti cliché, avvicina il prodotto ai gusti e all'empatia del grande pubblico.

Anatomia di una caduta ★★★

Il film vincitore della Palma d'oro 2023 consiste in un brillante legal thriller co-scritto e diretto da Justine Triet, che con uno stile asciutto e rigoroso seziona ogni sfaccettatura della parola, rivelandone il potere. È proprio mediante un'autopsia della parola (soffocata, urlata, registrata, tradotta, doppiata, insomma sempre alterata) che la sceneggiatura invita lo spettatore a scegliere in cosa credere, non potendosi accontentare della verità giudiziale, non necessariamente conforme a quella storica. Il film si concede forse qualche leziosità di troppo (dalla lunga durata a qualche cliché giuridico), ma mette in scena con chirurgica precisione cinematografica la dirompente potenza del lógos.

Dogman ★★½

Con uno stile spavaldo, fumettoso e consapevolmente sopra le righe, Luc Besson mette in scena la tragedia di un antieroe abbandonato da Dio e dagli uomini (la parola Dogman contiene sia il palindromo di God, sia Man), che cerca il proprio posto nel mondo sfidando continuamente il proprio destino. Riuscirà ad accettarlo (assurgendo così ad imago Christi) solo dopo essere stato finalmente ascoltato. Alla poca brillantezza della scrittura (fin troppo derivativa rispetto al Joker di Todd Phillips) sopperiscono discrete sequenze action e l'interpretazione di Caleb Landry Jones, abilissimo a dare profondità al suo personaggio.

Killers of the Flower Moon ★★★

Con un'opera fiume intrisa della sua poetica, Martin Scorsese mette in scena le origini degli Stati Uniti d'America, un corpo fatto di terra (di conquista e preservazione), sangue (di nemici violentemente uccisi) e petrolio (combustibile di una società avida fino al midollo e alla costante ricerca di denaro). Nulla di nuovo, si potrebbe obiettare, se solo la sceneggiatura non scegliesse di adottare il punto di vista del male, patito dal personaggio di Lily Gladstone (ennesima donna angelo di matrice schraderiana) e incarnato da Leonardo DiCaprio (inetto reduce di guerra nei panni di un burattino) e da Robert De Niro (subdolo manovratore nelle vesti di burattinaio). A tenere le fila è tuttavia proprio Scorsese, che da deus ex machina entra in scena, rompe la quarta parete e svela la mano invisibile: quella insanguinata del capitalismo, certo, ma anche del regista, autentico marionettista e aedo dell'epopea americana.

The Palace ★★

Per rappresentare la nascita del nuovo millennio e l'inizio del processo di disgregazione europea, Roman Polanski sceglie di dirigere una farsa claustrofobica, all'insegna del kitsch e del cattivo gusto. Adottando uno stile grottesco quanto i suoi personaggi (l'irricevibile abuso della CGI ne è la più fulgida dimostrazione), il regista abbassa la macchina da presa e immerge lo spettatore nella volgarità del benessere, il solo linguaggio comune di una babele di lingue che non si capiscono tra loro e che trova nella cafoneria l'unica possibilità di comunicare con l'altro ¹. Malgrado la scarsa originalità del contenuto e il didascalismo delle intenzioni, il film ha il coraggio di denunciare il degrado della contemporaneità prendendovi parte, con tutti i rischi respingenti del caso. Di certo, non il più banale e insignificante dei cinepanettoni. ¹ Roy Menarini

Asteroid City ★★★½

Affinando il processo di astrazione iniziato con The French Dispatch , Wes Anderson scrive e dirige Asteroid City, commedia che in modo radicale e compiuto certifica senza mezzi termini tutto il nichilismo della sua poetica. L'improbabilità della trama, la struttura narrativa a scatole cinesi (questa volta in senso verticale e non più orizzontale), la rigorosa perfezione formale, la scenografia spudoratamente artefatta, il continuo ricorso al campo e controcampo (o, ancor peggio, allo split screen) e l'alienante algidità delle interpretazioni attoriali sono tutti espedienti che sviliscono qualsiasi tentativo di immedesimazione e di coinvolgimento emotivo dello spettatore, costretto a fare i conti con l'incomunicabilità sentimentale, l'incomprensione affettiva, l'impossibilità della fede e l'inutilità della scienza (a lungo impotente durante la pandemia). Offrendo un involontario ma curioso controcampo di Oppenheimer (che nel deserto di Los Alamos ha cambiato il

Oppenheimer ★★★½

Prodigioso blockbuster d'autore scritto e diretto da Christopher Nolan, che ricorre alla prometeica figura di Oppenheimer per mettere in scena un dramma sull'ambiguità: della scienza, del potere, degli Stati Uniti, dell'uomo moderno. Le contraddizioni della fisica quantistica e l'espressa contrapposizione tra fusione e fissione (perfetta nomenclatura dei due blocchi narrativi del film) consentono allo spettatore di percepire sin dal principio la centralità di categorie antitetiche (creazione-distruzione, sicurezza-pericolo, soddisfazione professionale-senso di colpa, altruismo-arrivismo, collaborazione-individualismo, attivismo politico-astensionismo diplomatico), il cui confine - o, per meglio dire, la cui frontiera - non è mai stata così labile. Tutti questi paradossi, apparentemente inconciliabili, sembrano quindi trovare equilibrio, sintesi e coerenza solo nella loro rappresentazione, che tocca il suo culmine nella dirompenza del Trinity Test, ennesimo allestimento

Barbie ★★½

Riuscendo a far convergere con clamoroso successo le istanze del cinema pop con quelle del cinema d'autore, Greta Gerwig realizza un cult istantaneo, capace in pochi giorni (come non accadeva da tempo a un film) di entrare a gamba tesa nell'immaginario collettivo. Al di là dei meme, della vincente campagna promozionale e degli incassi record al botteghino, l'opera presenta tuttavia limiti piuttosto evidenti: la critica al patriarcato risulta insostenibilmente didascalica, il ritmo talvolta latita e, soprattutto, il paradosso generato dalla Mattel (che è al tempo stesso produttrice e bersaglio del film) crea dei cortocircuiti logici che minano la credibilità del prodotto, sostanzialmente ancorato ai valori che intende dichiaratamente criticare (capitalismo e patriarcato su tutti). Malgrado ciò, non mancano i meriti: dalla capacità (figlia del postmodernismo) di rielaborare e mettere al proprio servizio citazioni cinefile insieme alte e camp, all'efficacia di una satira c

The French Dispatch ★★½

L'ultima fatica di Wes Anderson consiste in un film corale, caratterizzato dall'inconfondibile stile del regista texano, capace di fondere l'iperrealismo dei dettagli scenici al surrealismo dei suoi tableau vivant. L'omaggio al giornalismo (trasposto in modo cinematograficamente brillante) appare lo spunto per riflettere su un confronto che è sia spaziale (America vs Europa), che temporale (tra vecchie e nuove generazioni). Ciò nonostante, la sceneggiatura procede a velocità supersonica e perde progressivamente di ritmo e originalità. Il risultato è un'opera ipertrofica, il cui estremo formalismo rappresenta croce e delizia dello spettatore.